La più antica forma di allevamento
L'allevamento delle pecore è una delle più antiche forme di attività economica mai svolta dall'Uomo.
Praticato nel Lazio da migliaia di anni, ha da sempre fornito beni essenziali alla vita dei popoli: carne per mangiare, latte per produrre formaggi, lana per riscaldarsi, pelli da conciare e - non ultimo - il prezioso letame, necessario a concimare e rendere fertile anno dopo anno la terra coltivata.
Non a caso il vocabolo "pecora" ha la medesima radice di "pecunia", denaro, derivata dal latino pecus 'bestiame', unica vera ricchezza e moneta di scambio nelle economia primitive a carattere pastorizio.
La pastorizia a Roma
L' "industria pastorizia romana", come la definisce il Mommsen nella sua "Storia di Roma", era molto sviluppata, sopratutto in virtù della grande richiesta di stoffe di lana. Tale attività, in età imperiale, era svolta sopratutto per mezzo di schiavi, scelti fra quelli più robusti, muniti di armi e cavalli e guidati da un mastro pecoraio, il magister pecoris.
Il trattato di pastorizia, re pecuaria, più completo che abbiamo ereditato dall'antichità lo ha scritto un romano, il letterato, scrittore e militare Marco Terenzio Varrone (I sec. a.C.), che si ispirò in parte ad antichi trattati greci e cartaginesi, ma sopratutto fece riferimento alla propria esperienza diretta di allevatore.
Proprietario egli stesso di armenti, Varrone disserta a lungo sulla pastorizia, sostenendo che le pecore per la loro mitezza furono le prime ad essere addomesticate e soffermandosi a lungo anche sul carattere e l'organizzazione dei pastori e sulla scienza dei cani che proteggevano le greggi.
La grande cura dei romani nella selezione e nella definizione delle razze è un altro dei temi trattati da Varrone e ripreso in seguito anche da Lucio Giunio Moderato Columella (I sec. a.C.) nella sua Arte dell'Agricoltura.
Columella auspicava che allevamento e agricoltura potessero convivere, dando vita ad un sistema agrario integrato, complesso ed autosufficiente.
Tale sistema si realizzò appieno nelle grandi ville rustiche dei romani, di cui il Lazio era disseminato, ed ha modellato poi l'economia agricola ed il paesaggio agrario tradizionale della regione: un mosaico di campi coltivati, boschi, pascoli ed erbai per le pecore in alternanza con colture erbacee ed arboree, buoi e cavalli impiegati per arare e per i trasporti, galline, papere, oche e tacchini liberi nei cortili, maiali allevati per la carne, vacche da latte custodite nelle stalle.
La tradizione Romana dell'Abbacchio
Abbacchio è l'antico termine romanesco che indica l'agnello giovane, protagonista indiscusso della storia culinaria di Roma e del Lazio.
Dal vocabolario romanesco del Chiappini, scritto nella seconda metà dell'800, leggiamo: "si chiama abbacchio il figlio della pecora ancora lattante o da poco slattato; agnello il figlio della pecora presso a raggiungere un anno di età e già due volte tosato. A Firenze non si fa distinzione l’uno e l’altro si chiamano agnello".
Le testimonianze storiche relative al grande rilievo dell'allevamento ovino a Roma e nei territori ad essa collegati risalgano ad epoche lontane: dai trattati di agricoltura e allevamento di Varrone e Columella, ai pareri di Giovenale sulla bontà degli agnelli, al grandissimo mercato degli abbacchi, degli agnelli, dei castrati e delle pecore ospitato presso il Foro Romano e particolarmente attivo nel corso della cosiddetta "abbacchiatura", nel periodo compreso tra Pasqua e Giugno.
Una tradizione lontana che ha dato origine a più di cento piatti storici, fra i quali grande fama hanno l’abbacchio al forno con patate a tocchetti, l’abbacchio a "scottadito" e l’abbacchio alla "cacciatora", che, cucinato con sapienza, suscita autentiche emozioni di gusto.